35In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: "Passiamo all'altra riva". 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca. C'erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: "Maestro, non t'importa che siamo perduti?". 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: "Taci, calmati!". Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: "Perché avete paura? Non avete ancora fede?". 41E furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: "Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?".
Credo che, in questo frammento di Vangelo, anziché soffermarci sul miracolo di Gesù, che placa la forte tempesta che si era improvvisamente levata nel mar di Galilea, sia meglio trattenerci ad esaminare le tre domande: due di Gesù ai discepoli (Perché avete paura? Non avete ancora fede?) e l’altra dei discepoli, stupefatti per il fatto che persino il vento e il mare obbediscano al loro maestro (Chi è dunque costui?).
Detto questo, è importante anche notare l’ordine che Gesù, giunto a sera, dà ai suoi discepoli (Passiamo all’altra riva). Quest’altra riva, infatti, non solo indica l’altra sponda del lago, ma ha anche un significato simbolico, dato che il miracolo di Gesù si riferisce più alla vita futura della Chiesa, rappresentata dalla barca e dai discepoli timorosi, piuttosto che al semplice fatto che Gesù abbia calmato le onde del lago quel giorno.
Da questa prospettiva, il fatto strano che Gesù dorma tranquillo sul comodo capezzale a poppa mentre la barca è sollevata e inabissata violentemente dalle onde, più che una prova di fede per quegli uomini, vuole significare la sua presenza tra i suoi sino alla fine del mondo, sebbene, molte volte, pare che non ci sia. È per il nostro tempo che i Vangeli sono stati scritti, e le domande di Gesù un po' provocatorie (Perché avete paura? Non avete ancora fede?) sono piuttosto uno stimolo per tener desta e ravvivare la nostra fede.
Dopo queste due domande, l’evangelista annota una cosa ancora più importante e, in un certo senso, strana. I discepoli non hanno paura solo quando il mare si agita contro di loro e Gesù dorme tranquillo; questa si accentua anche dopo che il loro maestro ha calmato le onde e fatto giungere la bonaccia, cioè dopo il miracolo. Per essere più precisi, dopo che Gesù li ha rimproverati per la loro pusillanimità e mancanza di fede. Mentre, infatti, Egli li rimprovera per essere stati codardi (deiloi, in greco), quando il mare si agitava ed Egli dormiva, ora essi si riempiono “di timore”. Letteralmente, “provarono un timore grande” (ephobethesan phobon megan).
Per cercare di comprendere questo ulteriore e più grande turbamento, possiamo contemplarlo alla luce di quello sperimentato al momento della trasfigurazione, che ebbe luogo più tardi (Mc 9,2-13). Anche lì, su quel monte, infatti, non riuscirono a capire come, il loro maestro, benché fosse il migliore di tutti e, forse, il messia atteso, ma pur sempre un uomo, apparisse come divinizzato. Anche in quell’occasione, non seppero dire nulla di sensato, perché “avevano timore” (ekphoboi egenonto).
La stessa cosa qui: sono contenti che le acque si siano calmate, ma non possono capire che un uomo, anche se Gesù è, forse, il messia, possa comandare agli elementi della natura. “E furono presi da grande timore – scrive Marco – e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?”. Essi non potevano ancora sapere che Gesù era quel Figlio che, giunta la pienezza dei tempi, il Padre aveva inviato a nascere da donna (Gal 4,4), ma l’episodio della tempesta placata è stata scritta per noi che lo sappiamo, anche se spesso lo dimentichiamo. Con l’incarnazione di suo Figlio, Dio non è più semplicemente colui che, dal cielo, protegge la creazione e l’umanità, come si professa in ogni religione, ma si è fatto parte della nostra storia, dentro la quale ha vissuto e sofferto, con e per tutti gli uomini.
Il miracolo nel quale crediamo e che deve confortarci in ogni situazione pacifica o burrascosa è questo: il Signore è con noi. Non calma i mari che continuano, come i vulcani e i terremoti, a insidiare la vita di molti, ma essendo passato per questo mondo, continua ad essere parte della nostra storia, durante la quale è stato persino condannato e giustiziato. Il miracolo è questo. Anche se Gesù dorme tranquillo a poppa della nostra barca, è la sua presenza silenziosa ma certa, ciò che veramente conta. Lo incontriamo nell’Eucaristia, nella preghiera e nei nostri fratelli e sorelle. Bisogna solo scoprirlo.
Come lo scoprì tra le macerie della città di Roma bombardata il poeta Giuseppe Ungaretti (1888-1970) e lo espresse nella poesia: “Mio fiume anche tu, Tevere fatale”. Vi “prega” il Cristo come fratello che soffre in mezzo agli orrori della seconda guerra mondiale che hanno devastato ogni vicolo della città e straziato i suoi abitanti. Lo evoca e invoca per poter dire, forte della sua compagnia, “d’un pianto solo mio non piango più”.
“Fa piaga al Tuo cuore / la somma del dolore / che va spargendo sulla terra l’uomo; [...] Santo, Santo che soffri, / maestro e fratello e Dio che ci sai deboli. / Santo, Santo che soffri / per salvare dalla morte i morti / e sorreggere noi infelici vivi; / d’un pianto solo mio non piango più. / Ecco ti chiamo, / Santo, Santo, Santo che soffri”.
Dopo la perdita del fratello, poi anche dell’unico figlio, è la seconda guerra mondiale a ispirargli versi memorabili, nel 1943-44, a Roma, tra deportazioni e bombardamenti. Mio fiume anche tu è un inno alla fede che, mentre giudica la radice del male storico, dà senso alla sofferenza. La storia appare come “notte”, una lunga notte turbata, straziata, sconvolta, ma nonostante tutto, non disperata perché ne fa parte una presenza misteriosa: “Cristo, pensoso palpito / Astro incarnato nell’umane tenebre”. Un pensoso Cristo che continua ad immolarsi “perennemente per riedificare / umanamente l’uomo”, anche e proprio nei momenti più tragici, come quello della guerra e della violenza [ora che nelle fosse / con fantasia ritorta / e mani spudorate / dalle fattezze umane l’uomo lacera / l’immagine divina].
Meglio ancora di tanti teologi e pastori, trova nell’incarnazione del Verbo, il motivo risolutore della tragicità della storia: “Vedo ora nella notte triste / Imparo, / so che l’inferno s’apre sulla terra / Su misura di quanto / l’uomo si sottrae, folle / alla purezza della sua passione”. Sottrarsi all’amore manifestato da Cristo per l’uomo, vuol dire Ungaretti, è come accettare e rendersi partecipi di una vita infernale, in quanto insopportabile.
E noi non ci domandiamo più: “Chi è questo, a cui perfino il vento e il mare obbediscono?”. Poiché lo sappiamo e continuiamo a cercarlo. Nella preghiera e negli avvenimenti della nostra vita.
p. Bruno Moriconi ocd