XIIIa Domenica
del Tempo Ordinario – Anno A
2Re 4,8-11.14-16; Rm
6, 3-4 . 8-11; Mt 10, 37-42
2 luglio 2017
«Anche noi possiamo camminare in una vita nuova»
In questa Domenica XIII Gesù nel Vangelo, ci chiede se siamo
degni di Lui.
Nella II^ Lettura ci viene ricordato il dono che ci è stato
fatto con il battesimo: «Fratelli, non
sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù.. siamo stati sepolti
insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per
mezzo della gloria del Padre, così anche
noi possiamo camminare in una vita nuova».
Con il battesimo il Padre “ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto” [Col 1,13].
Facendoci partecipi della Sua morte e della Sua Risurrezione ci ha resi capaci
di concepire la nostra vita in un modo del tutto nuovo. La logica secondo la
quale agire e amare dopo la venuta di Gesù si è capovolta . Così che ora “Nessuno
di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il
Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore.” [Rm 14,7-8]. Con Il battesimo abbiamo avuto in dono mediante lo
Spirito Santo, lo stesso «pensiero di
Cristo»[1Cor 2,16]. Un “pensiero”
che coincide con quello del Padre. Un “pensiero”
che si nutre di ogni parola che esce dalla bocca del Padre. Un pensiero che si
realizza nell’azione nel modo e per l’opera che piace al Padre…
Ecco perché «anche noi possiamo camminare in una vita
nuova»: perché il pensare, il parlare, l’operare e l’amare con il “pensiero di Cristo” – col pensiero del Padre
– ci fa “camminare come uomini nuovi”…
Oggi Gesù ci chiede di riflettere per vedere se siamo «degni
di Lui», di seguirlo. Soprattutto se siamo degni di Lui in ciò che
amiamo, in modo particolare le persone più care! È per Lui che le amiamo? È una
testimonianza del Suo amore che ci ama per primo, l’amore che ci lega ai nostri
famigliari?...
Nel Vangelo Gesù ci ripete: “Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il
figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e
non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e
chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”.
La perentorietà del modo di parlare di Gesù, per altro non
insolita nel vangelo, ci chiede di riflettere seriamente. La ripetuta
espressione di Gesù: “non è degno ti me”
viene a ricordare a noi “sonnecchiosi” discepoli di Gesù se ci rendiamo conto della
drammaticità della nostra fede in Cristo. Se ci rendiamo conto di che cosa è accaduto
quando si siamo fatti cristiani, quando ci siamo sottomessi al nome di Cristo,
riconoscendolo così come l’uomo modello, come il criterio di umanità; quale
tipo di svolta dell’essere abbiamo compiuto; quale posizione ci siamo assunti
di fronte a ciò che è umano, così facendo; quale profondità deve raggiungere
questo processo e quale valutazione complessiva della realtà ne deve alla fine scaturire.
[cfr. J. Ratzinger, Introduzione al
cristianesimo, p, 82]
Da quando il Figlio di Dio – vero Dio e vero uomo – si è
implicato con la nostra vita, amandoci per primo fino a morire per noi, seguire
Gesù è un entrare in questa logica con tutto ciò che abbiamo e siamo: anima e
corpo. È un vivere una vita nuova!
Gesù oggi ci chiede di riflettere con pazienza sul nostro
modo di amare. In altra parte del vangelo ci chiederebbe di “calcolare bene” [Lc 14,28] se stiamo
amando il padre, la madre, la moglie i figli, gli averi secondo il suo “pensiero”. Proprio come farebbe chi
volesse costruire una torre o un re che pensasse di partire per la guerra. Per
non arrivare poi a “esporsi alla
derisione” («Costui ha iniziato la
fabbrica, ma non è riuscito a concluderla», Lc 14,30)…
Chi dunque è degno di Gesù, di essere suo discepolo? «Chiunque rinuncia a tutti i suoi averi» (Lc
14,28‑33). Il denaro di cui uno ha bisogno per costruire la casa cristiana di
una “Vita Nuova” è la consapevolezza di non averne affatto. Così il calcolo
richiesto, per il quale ci si deve prima sedere per riflettere in pace, è duplice:
se (negativamente) si è disposti a rinunciare a ogni bene proprio e se
(positivamente) si è disposti a combattere unicamente con le armi di Dio e non
con le nostre proprie (a cui si rinuncia).
In entrambi i casi si tratta di darsi un coraggio che
abbraccia tutta l'esistenza: lasciar perdere tutto e confidare sulla «protezione dell'Altissimo in modo da
affidarsi a Dio, anche se «ne cadono mille da una parte e diecimila dall'altra»,
sicuri di essere da Dio difesi (Sal 91,7).
Ovviamente
il calcolo di cui si tratta viene intrapreso nella fede, la quale impegna
incondizionatamente tutta l'esistenza come un tutto, ivi inclusa la perfetta
fiducia nell'aiuto e nella grazia di Dio.
E l'esigenza include espressamente la via della croce:
chi non è disposto a percorrerla con Gesù non ha realizzato tutto intero il
rischio. Poiché proprio qui diventa seria la massima conclusiva, che parla di
una «perdita
della vita» espressamente «per causa mia».
Nello stesso senso si esige che anche noi, in quanto morti
al peccato, viviamo per Dio in Cristo Gesù», dunque che cerchiamo di essere a
disposizione nello stesso suo sentimento per l'opera di salvezza di Dio nel
mondo. In questa disponibilità acquisteremo la nostra vita nel senso del
Signore mediante la perdita del nostro egoismo calcolatore.
Quando uno, come richiede la seconda parte del Vangelo, è
pronto ad accogliere un messaggero di Dio - sia un «profeta» o un «giusto» o
altrimenti un «piccolo discepolo» di Cristo (e chi non è uno di questi
«piccoli»?) - costui ha parte alla sua grazia.
Un meraviglioso esempio per tanto viene offerto dalla prima
lettura: la donna di Sunem, che accoglie il profeta Eliseo e addirittura gli
appresta una camera permanente, riceve da lui la cosa che meno sperava:
nonostante l'età di suo marito, un figlio.
La fecondità della missione profetica si esplica
veterotestamentariamente in questa fecondità corporale della donna accogliente.
Ma nel Nuovo Patto il dono può essere quello di una ancor più grande fecondità
spirituale…
Ecco come S. Teresa ci invita ad amare secondo
il «pensiero
di Cristo»
“Oh, carità di coloro
che amano davvero questo Signore
e ne conoscono la natura!
Il riposo non è loro possibile
se vedono di poter contribuire,
sia pur in minima parte,
al progresso anche di una sola
anima
e far sì che ami maggiormente
Dio,
o esserle di aiuto
per consolarla nelle sue
pene
o per liberarla da qualche
pericolo.
Come, il tal caso,
il riposo personale
diventa loro insopportabile!
Se non possono essere utili con
le opere, ricorrono all’orazione
importunando il Signore con
preghiere per le molte anime
di cui li affligge profondamente
costatare la perdita.
Essi rinunciano al loro piacere
e lo ritengono una felice
rinuncia,
dimentichi della propria
soddisfazione
e intenti solo a compiere
con maggior perfezione l
a volontà di Dio”
( Fondazioni, 5,5)
P. Aldo Formentin ocd