domenica 8 agosto 2021

Meditazioni sul Vangelo della Domenica

 Come dunque si può dire: "Sono disceso dal cielo?"

41Allora i Giudei si misero a mormorare contro di lui perché aveva detto: "Io sono il pane disceso dal cielo". 42E dicevano: "Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: "Sono disceso dal cielo"?". 43Gesù rispose loro: "Non mormorate tra voi. 44Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. 45Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. 46Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. 47In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. 48Io sono il pane della vita. 49I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; 50questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. 51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo".



Continua il lungo discorso di Cafarnao con la mormorazione dei giudei perché Gesù aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. La difficoltà è sempre la stessa, espressa nei Vangeli Sinottici da quelli del suo popolo che lo conoscevano come figlio del falegname e falegname Lui stesso. Qui siamo a Cafarnao, la città di Pietro, e i giudei, rappresentano tutti gli altri, in forma interrogativa, esprimono più o meno la stessa obiezione di quelli di Nazaret. “Non è forse Gesù”, si chiedono, “il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: "Sono disceso dal cielo"?".

 Abituati soprattutto dal quarto evangelista ad incolpare i giudei, potremmo essere tentati di pretendere che noi, a differenza di quelli, avremmo subito accettato che un falegname qualunque si presentasse come il pane disceso dal cielo, ma non saremmo sinceri. Se ora lo capiamo è perché lo Spirito Santo e i nostri compagni di fede (la comunità ecclesiale e in particolare, i Santi che hanno donato tutta la loro vita al Vangelo) ci guidano e sostengono. Allora, però, non era possibile comprenderlo, ma è proprio questa incomprensibilità immediata che evidenzia la realtà dell’incarnazione che ora professiamo con il Vangelo e con le parole delle lettere ai Galati, ai Filippesi e agli Ebrei.

 Adesso, per grazia di Dio e senza essere migliori degli altri che non lo credono, sappiamo che, giunta “la pienezza del tempo” (Gal 4,4), il Figlio di Dio nacque da donna e, pur “essendo di natura divina, non ritenne un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma, al contrario pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini” (Fil 2,6-7). Sappiamo anche che Gesù “è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato (Ebr 4,15). E che, “pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì” (Ebr 5,8)

 Nella logica della fede che ci anima, il silenzio dei trent’anni di vita nascosta di Gesù a Nazaret lavorando come falegname, parlano più di tutte le parole della teologia, perché confermano la realtà dell’invio di suo Figlio da parte del Padre, a nascere “da donna” e “sotto la legge” (Gal 4,4). A nascere come i figli dei pastori “avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” (Lc 2,12) e a morire condannato tra banditi, come se lo fosse anche Lui. Una nascita e una morte tra persone così povere da includere tutti gli altri.

 Noi, ora lo capiamo e rendiamo grazie a Dio per averci amato sino a questo punto, ma se lo crediamo, non è perché siamo più intelligenti degli altri, ma perché abbiamo ricevuto la grazia dello Spirito che ci assicura che non ci sbagliamo. Infatti, è ciò che disse Gesù nello stesso discorso di Cafarnao: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”.

I “giudei” di quel giorno nella sinagoga di Cafarnao ci rappresentano nella nostra naturale incapacità di credere quello che, nella pienezza dei tempi è avvenuto una volta per tutte [l’invio da parte del Padre di suo Figlio a nascere da donna]. Se non fosse per lo Spirito che lo attesta in noi, rimarremmo increduli anche noi, come lo stesso Gesù aveva predetto. “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso”, disse agli stessi Dodici nell’ultima cena, aggiungendo che solo con la venuta dello Spirito di verità, avrebbero compreso tutto (Gv 16,12-13).

 È lo Spirito Santo che ci fa capire perfettamente ciò che vuol dire Gesù quando si presenta come colui che stando unito a Dio, ha visto il Padre. “Chi crede ha la vita eterna”, ci dice Gesù. Non tanto per avere il cielo assicurato, ma perché, accogliendo Lui come Figlio di Dio fatto uomo, scopriamo la nostra stessa condizione filiale verso il Padre suo.

 Portati dallo Spirito capiamo che quando Gesù afferma di essere “il pane della vita”, non parla solo della sua presenza nell’Eucaristia, ma di se stesso venuto nel mondo come nostro fratello. La stessa cosa avvertiamo quando parla della necessità di mangiare la sua carne per avere una vita che non muore. La sua carne indica, effettivamente, la sua condizione umana e nutrirsi di essa vuol dire accettare che, veramente, “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14).

p. Bruno Moriconi ocd