Domenica IV di Pasqua Anno C, 17 aprile ’16
[Gv 10,27-30] In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le
conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in
eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date,
è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il
Padre siamo una cosa sola»
Nella quarta domenica di Pasqua, “Domenica
del Buon Pastore”, la Chiesa celebra la Giornata mondiale di preghiera
per le vocazioni di speciale consacrazione. Chiediamo al Signore Risorto,
il Buon Pastore, nuove sante e ferventi vocazioni al sacerdozio e alla vita
consacrata.
Il brano di Giovanni di quest’anno
liturgico C è molto breve. Tuttavia, come vale generalmente per il IV Vangelo,
è una fonte abbondantissima, inesauribile di contemplazione del mistero di
Cristo.
Ovviamente, il testo dei vv. 27 – 30
suppone il v. 11 precedente nel capitolo X: «Io sono il Buon Pastore…». A
differenza dei “mercenari”, ai quali non importano le pecore, ma se ne
approfittano per soddisfare i loro interessi (v. 13), il Buon Pastore ama le
sue pecore, e queste rispondono alla sua amorevole cura. Merita approfondire un
po’ alcuni vocaboli, che compaiono nella pericope. Questi esprimono intanto il
rapporto tra il Buon Pastore: Gesù Cristo, e le pecore: i credenti in Lui; e
poi illuminano la relazione di Gesù con il Padre.
«Le
mie pecore ascoltano la mia voce…». S’esprime l’atteggiamento fondamentale, di fede, per
entrare in comunicazione con Dio. Diversamente dai farisei e dai Sommi
Sacerdoti, che interrogano Gesù per accusarlo, le pecore ascoltano Gesù con il
desiderio di udire la sua voce e di obbedire ad essa. I cristiani si
caratterizzano proprio per questo “ascoltare”, “audire”, quale obbedienza “ex
animo” ai precetti del Vangelo. La fede o l'incredulità di una persona non
dipende da un destino predeterminato, ma da una scelta personale.
«Io
le conosco…». Il Buon
Pastore conosce le sue pecore, di una conoscenza che scaturisce dall’amore e
s’identifica con esso. Infatti, l’amore e la conoscenza biblica si sostengono a
vicenda e costituiscono il rapporto personale che diventa comunione, Chiesa su
tutti i piani del vissuto umano.
«...ed
esse mi seguono». Le
pecore seguono il Buon Pastore per libera scelta, perché sentono l’amore del
Pastore - e non per costrizione, come al mercenario, che li spinge con
violenza. La spontanea, libera sequela delle pecore nasce dalla relazione di appartenenza al Buon Pastore – a
differenza, sempre, dei mercenari, che ritengono le pecore come loro proprietà
privata, privandole dalla loro libertà e dignità (v. 12).
J. Ratzinger scrive a proposito della differenza tra il possedere e l’appartenere: «Nessun uomo “appartiene” a un altro come gli appartiene una cosa. I figli non sono “proprietà” dei genitori; gli sposi non si posseggono vicendevolmente. Ma si “appartengono” in un modo molto più profondo di quanto a uno appartenga, per esempio un pezzo di legno o un terreno o qualunque cosa venga chiamata “proprietà”. I figli “appartengono” ai genitori e sono tuttavia creature libere di Dio, ciascuno con la propria vocazione, con la sua novità e la sua unicità dinanzi a Dio. Essi si appartengono… proprio per il fatto che accettano la libertà dell’altro e si sostengono a vicenda nell’amore come nella conoscenza – al tempo stesso liberi e una cosa sola in questa comunione per l’eternità» (J. Ratzinger Gesù di Nazaret, vol I p. 325s.). È quel appartenersi nella conoscenza e nell’amore, che crea l’armonia, la pace, la comunione nella famiglia, nella città civile e nella Chiesa.
J. Ratzinger scrive a proposito della differenza tra il possedere e l’appartenere: «Nessun uomo “appartiene” a un altro come gli appartiene una cosa. I figli non sono “proprietà” dei genitori; gli sposi non si posseggono vicendevolmente. Ma si “appartengono” in un modo molto più profondo di quanto a uno appartenga, per esempio un pezzo di legno o un terreno o qualunque cosa venga chiamata “proprietà”. I figli “appartengono” ai genitori e sono tuttavia creature libere di Dio, ciascuno con la propria vocazione, con la sua novità e la sua unicità dinanzi a Dio. Essi si appartengono… proprio per il fatto che accettano la libertà dell’altro e si sostengono a vicenda nell’amore come nella conoscenza – al tempo stesso liberi e una cosa sola in questa comunione per l’eternità» (J. Ratzinger Gesù di Nazaret, vol I p. 325s.). È quel appartenersi nella conoscenza e nell’amore, che crea l’armonia, la pace, la comunione nella famiglia, nella città civile e nella Chiesa.
Il rapporto di comunione e di appartenenza
tra i credenti scaturisce quindi dall’appartenenza al Buon Pastore. Essa ha un
prezzo – alto -, che il Buon Pastore ha pagato, per le sue pecore: «Io do loro la vita eterna…». L’espressione
rievoca ancora i versetti 11 e 14 precedenti del cap. X: «Il Buon Pastore dà la propria vita per le pecore…». La vita eterna è Dio stesso, che il Buon
Pastore dona, quando muore in croce per le sue pecore.
«Non
andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano » Il Buon Pastore è il Figlio di Dio a cui
il Padre ha dato in mano ogni cosa (Gv 3,35). Chi segue Cristo, è custodito da
Lui; è al sicuro, nessun potere di male può resistere a Dio.
«Nessuno le strapperà
dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e
nessuno può strapparle dalla mano del Padre» La lettura d’insieme dei vv. 28b e 29 offre uno spunto per la
contemplazione del mistero di Dio. Compare due volte la parola “mano”, prima in
riferimento al Figlio (il Buon Pastore), poi in riferimento al Padre. Il senso
- allegorico – dell’immagine sconfina nella profondità infinita della relazione
tra Dio Padre e l’Unigenito Figlio. Un S. Agostino ha scalfito alquanto questo
mistero, nel suo commento sul Vangelo. Spiega che, in riferimento all'uomo, la
“mano” del Buon Pastore e la “mano” del Padre coincidono. Essa significa
l’opera creatrice e salvatrice di Dio (cfr. Gn 2,7; Mc 7,32; Gv 9,6 passim). Ma
in riferimento a Dio, l'immagine esprime il rapporto del Padre col Figlio: «E'
forse una sola la mano del Padre e quella del Figlio, oppure il Figlio stesso è
la mano del Padre suo? Se per mano intendiamo la potestà, unica è la potestà
del Padre e del Figlio, perché unica è la divinità; se invece per mano
intendiamo ciò che dice il profeta: Il
braccio del Signore a chi è stato rivelato? (Is 53, 1), la mano del
Padre è il Figlio. Il che non significa che Dio abbia forma umana, e perfino
membra corporee; ma che per mezzo di lui furon fatte tutte le cose» (In Io
Evang. Tr 48,7).
E sempre sulla scia di
S. Agostino, S. Giovanni della Croce ha descritto, come il credente percepisce
misticamente questa divina mano, che lo custodisce: «Questa mano, torno a
ripetere, simboleggia il Padre celeste, ricco di misericordia e onnipotente. È
da notare che se essa è tanto generosa e munifica quanto potente e ricca, i
doni che essa offrirà, allorché si aprirà per concederli all’anima, saranno
ricchi e valenti... Mi hai ferito per guarirmi, o mano divina! Hai ucciso in me
ciò che mi teneva nella morte! Ero allora privo della vita di Dio, in cui ora,
invece, mi trovo a vivere! Debbo questo favore alla [liberalità] della tua
generosa grazia, che hai riversato su di me quando mi ha fatto sentire il tocco
di Colui che è irradiazione della tua gloria e impronta della tua sostanza (Eb
1,3), cioè il tuo Figlio unigenito, nel quale, come tua Sapienza, tu tocchi da
un confine all’altro della terra con forza (Sap 8,1). È lui, il tuo Figlio
unigenito, o mano misericordiosa del Padre, il tocco delicato...» (Fiamma
d'amor viva II, 16).
«Il
Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle
dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola» Gli ultimi due versetti offrono ancora una
chiave, per evitare concetti falsi sulla Trinità divina. «Siamo...», al
plurale, dice la relazione tra Padre e Figlio: il Padre precede il Figlio,
generandoLo dall'eternità e comunicandogli la sua Natura divina: Il Padre è
“più grande” in ordine di relazione. In ordine di natura il Padre e il Figlio
sono «...una cosa sola»: la Natura divina è comune tra il Padre e il
Figlio: il Padre ha donato ogni cosa al Figlio, vale a dire, ha donato la sua
stessa Divinità al Figlio.
In altre parole, il Padre rappresenta la
volontà d'amore che crea e salva. Il Figlio impersona l'obbedienza d'amore, che
si manifesta nella creazione e nella salvezza eterna dei credenti. Gesù Cristo
realizza la volontà salvifica del Padre: «E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo
risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che
chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo
risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,39s.). A loro volta i credenti attuano la comunione d'amore
con il Padre con l'obbedienza ai comandamenti di Cristo (cfr. Gv 14,15ss.).