Nelle tre scene del capitolo 25, siamo giunti
alla vetta del Vangelo di Matteo. La prima scena, con il simbolo delle dieci
vergini che aspettano lo sposo, cinque provviste di olio sufficiente e cinque
che portano soltanto le lampade, ci suggerisce la necessità di essere preparati
per la venuta del Signore. A questa scena segue quella dei talenti affidati da
un ricco signore, che rappresenta Gesù, a tre amministratori, due solleciti e
uno completamente inerte e pauroso. Una parabola, questa seconda, che
suggerisce la necessità di confidare nel Signore che, da parte sua, si fida di
ciascuno di noi, senza timore di perdere.
Sono insegnamenti molto importanti quelli di
queste due prime scene, tuttavia di puri principi, dato che non spiegano come
tradurre in pratica la vigilanza e la sollecitudine necessarie per far
crescere, nel mondo, il regno di Dio come autentici discepoli di Gesù. È la
terza scena la più forte, quella che indica chiaramente, con tutta la sua
scioccante singolarità, ciò che si deve fare.
Anche nella terza parabola, come nelle prime
due, ci sono saggi e stolti, però in questa scena, chiamata
“del giudizio universale”, i personaggi sono prima qualificati come pecore e capre, poi, come benedetti e maledetti. Inoltre, mentre nelle due
prime parabole, sia le vergini sagge come i due amministratori solerti, sono
coscienti di aver agito bene e non li sorprende la buona accoglienza del
Signore, qui gli stessi giusti si domandano perché li si loda come buoni.
In effetti, quando Gesù dice loro che ogni
volta che hanno fatto il bene a un bisognoso, lo hanno fatto a Lui, essi non
comprendono perché lo dice. E nel domandargli quando è successo, il Signore li
sorprende con queste scioccanti parole: “Ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete
accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e
siete venuti a trovarmi”.
La novità di cui ci assicura Gesù, se noi
riflettiamo bene su questa spiegazione, è ancora più grande. Infatti, non dice
– come è possibile vedere in altre religioni o in altri libri sacri, compreso
l’Antico Testamento – “è come se lo
aveste fatto a Dio”, ma “a me lo
avete fatto (mi avete dato da
mangiare, mi avete dato da bere, mi avete ospitato, mi avete vestito, mi
avete visitato, mi siete venuti a
trovare).
Allora, come essere riconosciuti e dichiarati
benedetti dal Signore, risulta chiaro: riconoscere Gesù in ogni fratello o
sorella che ha bisogno del nostro aiuto. Non basta dire “Signore, Signore”,
occorre dimostrare che veramente crediamo che il Figlio di Dio, nascendo da una
Donna, si è fatto fratello di tutti, e che l’unico luogo in cui può essere
riconosciuto è nei più bisognosi. In altre parole, la preghiera e la sua
presenza nell’Eucaristia, oltre ad essere occasione per essere perdonati e
illuminati, sono fonti di energia per riconoscerlo nei fratelli.
E ora, una domanda che
sicuramente ci sale dal cuore.
Coloro
che non lo hanno riconosciuto andranno al castigo eterno? Le
parabole con le quali termina il capitolo 25 di Matteo, sono effettivamente
così forti che non possono non spaventare. Allora – smarriti come un giorno
Pietro, all’udire che i ricchi molto difficilmente entrano nel regno di Dio –
ci domandiamo anche noi chi mai potrà salvarsi.
“Se ne andranno: questi al supplizio eterno”,
sono parole terribili, ma lasciamo questo momento
dell’incontro definitivo alla misericordia di Dio. Quello che ci vuol dire Gesù
con queste parabole è da che cosa può riconoscerci come suoi discepoli. Non ci
chiederà se saremo stati tutti i giorni affianco agli abbandonati ai bordi
delle strade come Teresa di Calcutta, però qualcosa possiamo fare anche noi: “Chi
avrà dato da bere anche un solo bicchiere d'acqua fresca a uno di questi
piccoli”, disse in un’altra occasione Gesù, “in verità io vi dico: non perderà
la sua ricompensa” (Mt 10, 42). Il poco e il molto dipendono da molte cose,
però qualcosa è necessario fare.