Ringraziamo il nostro padre Saverio Cannistrà per averci permesso di pubblicare l'omelia con cui oggi ricorderà il Santo padre Giovanni della Croce.
SAN GIOVANNI DELLA CROCE
Collegio teologico internazionale, 2013
di p. Saverio Cannistrà*
«Padre santo, consacrali nella verità».
Così prega Gesù per i suoi discepoli nel vangelo che abbiamo appena ascoltato.
E aggiunge: «La tua parola è verità».
Quale parola, cari fratelli? Non solo la parola scritta, la parola che troviamo
nelle Scritture. È la parola viva che ciascuno di noi ha ascoltato e
continuamente riascolta nell’incontro con il Signore. È la parola che mi chiama
per nome, che mi invita a seguirlo, che mi fa suo. La parola che dice a me,
proprio a me: «Non temere», non avere
paura di me, non avere paura degli uomini, e soprattutto non avere paura di te
stesso, «perché tu sei prezioso ai miei
occhi, perché sei degno di stima e io ti amo».
È una
parola che ci viene incontro e ci accoglie, che ci nasconde nel suo seno,
nutrendoci, proteggendoci e dandoci vita. Meno ci possediamo, meno ci sentiamo
forti e sicuri, più questa parola risuona fortemente e chiaramente e proclama
la verità della nostra vita: quella di essere figli di Dio, e se figli anche «eredi di Dio, coeredi di Cristo», suoi
fratelli, chiamati a condividere il suo stesso cammino.
Non è
facile ascoltare questa parola, e soprattutto non è facile “rimanere” in essa.
Siamo circondati da parole, da appelli, da richiami che attraggono parti
diverse del nostro essere: i sensi, gli affetti, le passioni, l’intelligenza. E
nel rispondere a ciascuno di questi richiami, ci frammentiamo e ci disperdiamo.
Sentiamo, pensiamo, vogliamo tante cose, ma alla fine non ricordiamo più che
cosa veramente stavamo cercando. Perché, in realtà, c’è solo una parola che mi
chiama interamente e definitivamente, una parola che mi accetta e mi accoglie
così come sono, senza nulla escludere di me, la parola dell’unica persona che «mi scruta e mi conosce» fino in fondo.
Il nostro
fratello e padre che oggi celebriamo, lui, che ha rivestito il nostro stesso
abito e ha vissuto una vita simile alla nostra, ci ha insegnato come ascoltare
e come rimanere in quella parola. Da buon carmelitano, ha compiuto il precetto
fondamentale della Regola del Carmelo: ha meditato giorno e notte questa parola
del Signore, rimanendo nella cella del suo cuore, e lo ha fatto non da eremita
medievale, ma da uomo moderno del XVI secolo.
Giovanni è
straordinariamente attento ai meccanismi psicologici, affettivi e spirituali
dell’uomo. In consonanza con la sua epoca, è entrato nella complessità del
soggetto umano e ha scoperto che l’uomo “classico”, l’animale razionale con i
suoi sensi e le sue facoltà, è in realtà solo la parte visibile e illuminata di
un essere più ampio, che ha cavità profonde, «oscure e cieche», capaci di
muovere e orientare le regioni superiori. La parola di Dio rimane, si radica in
noi, solo se scende in queste profondità, in questi abissi, dei quali non siamo
automaticamente coscienti. Per scoprire ciò che siamo, in tutta la profondità e
ricchezza del nostro essere, dobbiamo scendere per una scala segreta. Dobbiamo
in qualche modo liberarci da tutto ciò che ci attrae, ci distrae, ci riempie
per un momento, e stare a vedere che cosa resta. Resta un vuoto, un abisso che
naturalmente ci spaventa, perché nessuna luce di fuori lo illumina, nessuna
voce lo anima, nessuna presenza lo abita. Ma è proprio lì, in quell’abisso, in
quel deserto, che la fiamma si accende, la fiamma del roveto ardente, che
brucia senza consumare. È una “fiamma viva di amore”, che già sta bruciando in
noi e noi non ce ne accorgiamo, che già sta riscaldando e illuminando il nostro
essere, quello vero, che viene dal seno della Trinità e a esso ritorna. E noi
non ci accorgiamo di essere già dentro questo “fuoco trinitario”. Se lo
sapessimo, la nostra vita sarebbe diversa. Nella misura in cui lo apprendiamo,
giorno dopo giorno, faticosamente, scendendo un gradino alla volta della
“segreta scala”, la nostra vita si trasforma e si avvicina all’abbraccio in cui
soltanto ci si può riposare e dimenticare di se stessi.
Giovanni ha
fatto questa esperienza e l’ha insegnata ai suoi ascoltatori. Prima fra tutti,
una certa Teresa di Gesù, che da lui ha appreso questa stratigrafia dell’anima
e l’ha tradotta nell’immagine del castello interiore: scendere nel profondo,
per trovare lì l’unione con l’altro e l’unità con se stessi.
Ce la
faremo anche noi, uomini di oggi, ad ascoltare questo messaggio? Avremo il
coraggio di metterci in cammino verso le nostre oscure e silenti profondità? Il
Signore ce lo conceda, per intercessione del nostro mite e sublime fra Giovanni
della Croce.