Come chiamare questa parabola? “del Seminatore”, “della Semina” o “dei quattro tipi di terreno”? Ciascuna di queste proposte avrebbe senso, ma noi lasciamo il titolo tradizionale che, tuttavia, si trova solo nel Vangelo di Matteo dove, in 13,18, iniziando la sua spiegazione, è Gesù stesso a chiamarla così.
Un commento?
Dato che questa parabola è spiegata da Gesù stesso, sarebbe
assurdo e presuntuoso volerla commentare a nostra volta. Ci limiteremo allora
ad alcune annotazioni che possano facilitare la stessa spiegazione cominciando
col dire che, non deve sembrare strano che il seminatore sia tanto sciocco da
gettare il seme senza preoccuparsi dove andrà a cadere. Essendo il terreno
molto pietroso e poco profondo, in Palestina la semina precedeva, infatti
l’aratura. Un modo di procedere che rende possibile che il seme cada ovunque:
non solo nel buon terreno, ma anche sul sentiero, tra le pietre e le spine. In
ogni caso, perfino questa possibilità concreta di coltivazione, può
simbolizzare la generosità del Signore (il Seminatore), che parla a
tutti, nonostante l’aridità di certi cuori (i diversi terreni).
Chiarito questo, bisogna tener presente che se Gesù termina
la parabola con una esortazione (“Chi ha orecchi, ascolti"),
vuol dire che la parabola, benché paia facile, non lo è. Il Signore vuol dirci
che non basta capire semplicemente il racconto, ma che bisogna porsi la domanda
di ciò che significa questa strana semina e, allo stesso tempo, generosa, per
ognuno di noi. Non basta una buona spiegazione filologica né tanto meno la
scoperta della morale della favola. Bisogna ascoltare come discepoli di Gesù, coscienti
che non si finisce mai di imparare.
Per capire il senso profondo di questa parabola è allora
necessario cominciare a porsi in ascolto di ciascun elemento: il seminatore, il
seme, i diversi terreni, il raccolto. Bisogna mettersi lì, ai piedi di Gesù, e
domandarsi ciò che ha voluto insegnarci con quella parabola, semplice e
misteriosa allo stesso tempo. E non solo questo! Bisogna essere disposti ad
accogliere il rimprovero che Gesù, parlando con i suoi discepoli, ci fa alla fine
della stessa parabola nel racconto di Marco: “Non capite questa
parabola, e come potrete comprendere tutte le parabole?” (Mc
4,13).
Molto spesso si pensa che Gesù – sempre gentile con le folle
e i poveri – parli in parabole per essere capito da tutta quella gente
semplice, ma non è proprio così. Per i semplici di cuore, certamente, ma ciò
che Marco sottolinea nella conclusione, deve essere chiaro: “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la
Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in
privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (Mc 4,33-34).
In altre parole, parlava in parabole adattandosi alla
capacità di comprendere della gente, ma in privato, ai suoi
discepoli spiegava ogni cosa. Se, infatti, la salvezza
di Gesù è per tutti, le sue parabole non hanno lo scopo di spiegare a chiunque
la via che solo i discepoli che lo seguono da vicino potranno capire in tutta
la sua novità. Il linguaggio è semplice e appartiene alla vita di tutti i
giorni (la semina, il lievito, la zizzania, la luce, le pecore, eccetera), ma
il suo significato è più profondo e può essere apprezzato solo alla luce della
vita di Gesù che i discepoli torneranno a pensare sotto la luce dello Spirito.
La sfida di Gesù (“Chi ha orecchi, ascolti”) si riferisce proprio a
questo, poiché “avere orecchi” vuol dire lasciarsi illuminare dallo Spirito.
La spiegazione può essere compresa solo da chi vuole capire,
non necessariamente i migliori, ma da coloro che desiderano essere discepoli di
Gesù. La domanda che, allora, ognuno dovrebbe porsi potrebbe essere, per
esempio, la seguente: “Che tipo di terreno sono io?”. Non è necessario produrre
cento come alcuni santi eccezionali della nostra storia cristiana. Basta
un sessanta o anche un trenta, se il nostro terreno non po'
rendere di più. Importante è fare bene la nostra parte. Con l’aiuto di Dio (è
chiaro!) e non darsi mai per arrivati.