Per poter capire il senso profondo delle Beatitudini,
bisogna tener presente che non si tratta di proposte ascetiche o di impegni
etici, ma di ideali da leggere alla luce di come le ha vissute Gesù.
Rispecchiano, infatti, i tratti del Suo volto, di Gesù povero, di Gesù sofferente, di Gesù mite, di
Gesù affamato e assetato di giustizia, di
Gesù misericordioso, di
Gesù puro di cuore, di Gesù
operatore di pace e, infine, di
Gesù perseguitato.
È di massima importanza,
dunque, leggere attentamente l’inquadratura scenografica con cui inizia il
capitolo del Discorso della montagna di Matteo. “Vedendo le folle”,
scrive, infatti, l’evangelista, “Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si
avvicinarono a lui i suoi discepoli”. Le folle, erano, dunque, rimaste ai
piedi del monte, quando Gesù “si mise a parlare e insegnava loro [ai
discepoli che gli si erano avvicinati] dicendo [le beatitudini]”. Le
folle sono presenti e costituiscono sicuramente la preoccupazione costante di
Gesù come dimostra in tante altre occasioni, ma – a parte l’impossibilità di
farsi sentire da chi gli stava ormai lontano – secondo l’esplicita annotazione
di Matteo, ma anche di Luca nel brano parallelo, Egli dirige il suo discorso,
per il momento, ai soli discepoli.
“Gesù”, scrive Luca, “alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: Beati
voi poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi che adesso avete fame,
perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete. Beati voi
quando gli altri vi odieranno e vi rifiuteranno, quando vi insulteranno e
disprezzeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo.
Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché la vostra ricompensa è di certo
grande nei cieli. Allo stesso modo, infatti, si comportavano i loro padri con i
profeti” (Lc 6,20-23).
L’introduzione di Matteo, come abbiamo appena ricordato,
è ancora più plastica di quella di Luca e questa precisazione è molto importante, non
perché, la predicazione di Gesù in generale e le Beatitudini in
particolare, siano dirette solo ad alcuni privilegiati. Il ringraziamento che
Gesù, in Mt 11, innalza al Padre in un’altra occasione per
aver tenuto nascoste le cose del regno ai sapienti e ai saggi e averle rivelate
ai semplici, sarebbe lì a smentirlo categoricamente. Il discorso è, tuttavia,
rivolto ai “discepoli”, poiché solo come
tali, conoscendo Gesù, saranno in
grado di capire ciò che Egli aveva detto quel giorno.
Gesù sa che il suo discorso, benché non erudito,
non lo può comprendere nessuno, neppure i dodici discepoli, ma lo rivolge a
loro poiché solo come tali [in quanto lo seguono da vicino e soprattutto perché
lo vedranno dare la vita per l’umanità] saranno in grado di capire. Sapranno
che quelle “beatitudini”, al momento utopistiche e perfino pericolose, vanno
comprese alla luce del comportamento del Maestro. Il suo linguaggio, infatti,
non è soltanto nuovo, ma provocatorio e, se considerato in astratto e senza
riferimento al suo esempio, perfino fonte di false interpretazioni.
Dire che i poveri, quelli che piangono e gli
affamati sono beati in quanto tali è, infatti, proprio il contrario di ciò che
Gesù vuol dire. Non solo queste affermazioni sarebbero
contrarie alle benedizioni legate all’antica alleanza che promettono prosperità
e vita a chi si mantiene fedele al Signore, ma sarebbero pericolose anche
se suonassero solo in chiave consolatoria e la consolazione e la beatitudine
fossero da riferire a una ricompensa nell’altra vita e non al “Regno di Dio” cui
Gesù è venuto a dar inizio sulla terra. La beatitudine di Gesù, infatti, è per
questa vita, come ha dimostrato, fra gli altri e in modo eccezionale, san
Francesco che l’ha cantata addirittura come “perfetta letizia”.
Senza Gesù, sarebbero veramente oppio e avrebbe
avuto ragione Marx a reputarle opportunistiche espressioni religiose volte a
consolare i poveri. Il cristianesimo non sarebbe altro che una religione e,
come tale, potrebbe perfino - come è accaduto in certa predicazione al sorgere
delle problematiche sociali moderne - giungere a scoraggiare i poveri, in base
ad un presunto piano provvidenziale, dal desiderare di uscire dalla loro
condizione. La povertà, se non è una scelta di austerità per qualche motivo
spirituale, è solo causa di sofferenza e, come fanno giustamente i buoni missionari,
deve essere combattuta con l’istruzione e ogni altro mezzo di promozione
sociale.
Certo, i poveri di cui nessuno si occupa sono
oggetto speciale dell’amore di Dio, ma non è certo questo ciò che Gesù vuole
proporre come tipico della sua sequela e, quindi, come beatitudine. Si
tratta di un capovolgimento radicale dei valori, ma non in senso puramente
materiale. Dio, come dimostra lo stesso Gesù con il suo comportamento, è per
ogni categoria di persone - non esclusi i benestanti come Nicodemo, Matteo, la
famiglia di Betania, e altri. Sono molti i testi antico testamentari sui poveri
come oggetto particolare della benevolenza divina, ma le beatitudini vanno
molto più nel profondo e riguardano l’uomo come tale.
Qualunque sia la sua condizione sociale, chi vuol
essere discepolo di Gesù, deve essere distaccato da tutto o, come indica
l’aggettivo aggiunto da Matteo alla prima beatitudine, povero “in spirito”,
ossia, disposto alla condivisione.