MEDITIAMO CON P. GIORGIO ROSSI
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 9, 11-17).
In
quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti
avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo:
«Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per
alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non
abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare
viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero
così e li fecero sedere tutti quanti.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di
essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero
alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici
ceste.
Nella zona desertica di Betsaida, alla sera di una giornata
spesa a prendersi cura dell’anima e del corpo di cinquemila persone, Gesù,
presi in mano cinque pani e due pesci, anticipa sotto gli occhi di tutti quei
gesti eucaristici che nell’ultima Cena consegnerà ai Dodici dicendo: “fate
questo in memoria di me” (1Cor 11,24b). Nel deserto, moltiplica il
cibo e lo fa distribuire alla folla; nel Cenacolo, lo trasforma in se stesso ed
è lui a distribuirlo ai discepoli.
Sono due episodi separati nel tempo, ma collegati in
quell’evento fondamentale per la Chiesa che Paolo ha ricevuto e trasmesso a sua
volta: l’inconcepibile miracolo dell’Eucaristia, un Corpo preparato dal Padre
per dare a tutti gli uomini la Vita del Figlio (Eb 10,5).
Il prodigio di Betsaida serve a saziare il corpo dei molti
che hanno seguito Gesù per tre giorni senza provviste “al sacco”; quello del
Cenacolo annuncia la fine di una fame molto più profonda, diffusa, vitale:
quella del cuore. La fame saziata nel deserto serve a capire che il pane
materiale, preparato nei villaggi e nelle campagne dagli uomini, non può
soddisfare il loro radicale bisogno di verità e di vita vera ed eterna; solo il
pane-Carne e il vino-Sangue di Gesù sono quel cibo incorruttibile che impedisce
di perire, poiché la sua sostanza è Dio.
Inquadrando il contesto immediato del fatto, Luca racconta
che Gesù si era ritirato in disparte, ma non sembra minimamente infastidito da
queste folle implacabili: l’evangelista rivela infatti che egli “le
accolse” (Lc 9,11b). Evidentemente non si era ritirato per sfuggire
alla gente che lo cercava. Semmai è il suo ritrarsi che lo dispone ad
accogliere. Gesù è abituato a “rientrare in se stesso”. Perciò sente i nostri
problemi, sente le nostre debolezze, sente i nostri bisogni.
E in quel suo rientrare spesso “nel segreto”, nella stanza
più intima, incontra lo sguardo dell’Unico che vede nel segreto della sua
anima, che non smette mai di considerarlo Figlio, sa di cosa Egli è capace e provvede
a che lo mostri a noi che invece viviamo come orfani, che fanno tutto per essere notati e amati, ammirati e lodati;
anche quando ci nascondiamo scappando dagli altri, in fondo è perché la nostra
vita dipende da chi ci è intorno. Pericolosissima
situazione di chi è vuoto dentro, nel cuore come nella mente, e vagabonda
mendicando qualsiasi cosa pur di riempire la voragine che stordisce e rapisce
gioia e pace.
Pericolosa per i
giovani, che avvelenano con perversioni di ogni tipo occhi,
mente e carne ancora verdi e perciò vulnerabilissimi, sporcando l’immagine
dell’amore, della sessualità, delle relazioni tra uomo e donna, tra gli amici.
Pericolosa per gli
adulti, che possono bruciare le Grazie ricevute barattando la
primogenitura dei figli di Dio con un po’ di consolazione: prestigio,
considerazione, ossequi e falsità senza limite e fine, che incensano il tempo
sufficiente ad arraffarci la poca vita che ci rimane per abbandonarci più soli
e disperati di prima.
Pericolosa per gli
anziani, che possono cadere nella trappola dell’insoddisfazione, della
solitudine, del sentirsi abbandonati da tutti, lasciandosi andare così alla
mormorazione, al giudizio per figli e parenti, e trasformarsi in gocce di acido
che sfregiano tutto ciò a cui si avvicinano.
Pericolosa per i
sacerdoti e i religiosi, che si possono trasformare in esecutori freddi
di culto e dispensatori di routine di sacramenti, che usano e pervertono le
cose sante per saziare la propria carne ridotta a spugna secca.
Quanti orfani sparsi nel mondo. Ci siamo dentro anche noi,
che spendiamo il tempo fuori del segreto;
che non abbiamo un luogo segreto dove
si è figli del Padre e dove tornare per riposare.
Troppo spesso la nostra vita non ha segreti mentre tutto è
tragicamente pubblico; sempre connessi con il mondo, sempre fuori come Esaù a
disperdere la primogenitura, attingendo dall’esterno il senso che impedisca al
tutto di volare via.
Gesù allora ci invita a sedere a gruppi di cinquanta, a non
essere più folla ma piccole comunità, nutrite dal pane di Dio. Poi prende quei
pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, recita la benedizione – è chiaro il
riferimento all’Eucaristia –, poi li spezza e comincia a darli ai discepoli, e
i discepoli li distribuiscono… e i pani e i pesci non finiscono… Mangiano tutti
e se ne avanza: è il segno di Gesù, è il “di più” dell’amore. È la logica del
servizio, del saper condividere il poco che siamo e che abbiamo. Del non
chiuderci mai in noi stessi ma del rientrare. Per poi uscire di nuovo. E di
nuovo ancora.
Nel Sacramento dell’altare «il Signore viene incontro
all'uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gn 1,27),
facendosi suo compagno di viaggio» (Sacramentum
Caritatis, 2).
p. Giorgio Rossi