sabato 14 dicembre 2013

Omelia del P. Generale: Quel piccolo roveto acceso nei nostri abissi



Ringraziamo il nostro padre Saverio Cannistrà per averci permesso di pubblicare l'omelia con cui oggi ricorderà il Santo padre Giovanni della Croce. 
 
SAN GIOVANNI DELLA CROCE
Collegio teologico internazionale, 2013
di p. Saverio Cannistrà*


            «Padre santo, consacrali nella verità». Così prega Gesù per i suoi discepoli nel vangelo che abbiamo appena ascoltato. E aggiunge: «La tua parola è verità». Quale parola, cari fratelli? Non solo la parola scritta, la parola che troviamo nelle Scritture. È la parola viva che ciascuno di noi ha ascoltato e continuamente riascolta nell’incontro con il Signore. È la parola che mi chiama per nome, che mi invita a seguirlo, che mi fa suo. La parola che dice a me, proprio a me: «Non temere», non avere paura di me, non avere paura degli uomini, e soprattutto non avere paura di te stesso, «perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo».
            È una parola che ci viene incontro e ci accoglie, che ci nasconde nel suo seno, nutrendoci, proteggendoci e dandoci vita. Meno ci possediamo, meno ci sentiamo forti e sicuri, più questa parola risuona fortemente e chiaramente e proclama la verità della nostra vita: quella di essere figli di Dio, e se figli anche «eredi di Dio, coeredi di Cristo», suoi fratelli, chiamati a condividere il suo stesso cammino.
            Non è facile ascoltare questa parola, e soprattutto non è facile “rimanere” in essa. Siamo circondati da parole, da appelli, da richiami che attraggono parti diverse del nostro essere: i sensi, gli affetti, le passioni, l’intelligenza. E nel rispondere a ciascuno di questi richiami, ci frammentiamo e ci disperdiamo. Sentiamo, pensiamo, vogliamo tante cose, ma alla fine non ricordiamo più che cosa veramente stavamo cercando. Perché, in realtà, c’è solo una parola che mi chiama interamente e definitivamente, una parola che mi accetta e mi accoglie così come sono, senza nulla escludere di me, la parola dell’unica persona che «mi scruta e mi conosce» fino in fondo.
            Il nostro fratello e padre che oggi celebriamo, lui, che ha rivestito il nostro stesso abito e ha vissuto una vita simile alla nostra, ci ha insegnato come ascoltare e come rimanere in quella parola. Da buon carmelitano, ha compiuto il precetto fondamentale della Regola del Carmelo: ha meditato giorno e notte questa parola del Signore, rimanendo nella cella del suo cuore, e lo ha fatto non da eremita medievale, ma da uomo moderno del XVI secolo.
            Giovanni è straordinariamente attento ai meccanismi psicologici, affettivi e spirituali dell’uomo. In consonanza con la sua epoca, è entrato nella complessità del soggetto umano e ha scoperto che l’uomo “classico”, l’animale razionale con i suoi sensi e le sue facoltà, è in realtà solo la parte visibile e illuminata di un essere più ampio, che ha cavità profonde, «oscure e cieche», capaci di muovere e orientare le regioni superiori. La parola di Dio rimane, si radica in noi, solo se scende in queste profondità, in questi abissi, dei quali non siamo automaticamente coscienti. Per scoprire ciò che siamo, in tutta la profondità e ricchezza del nostro essere, dobbiamo scendere per una scala segreta. Dobbiamo in qualche modo liberarci da tutto ciò che ci attrae, ci distrae, ci riempie per un momento, e stare a vedere che cosa resta. Resta un vuoto, un abisso che naturalmente ci spaventa, perché nessuna luce di fuori lo illumina, nessuna voce lo anima, nessuna presenza lo abita. Ma è proprio lì, in quell’abisso, in quel deserto, che la fiamma si accende, la fiamma del roveto ardente, che brucia senza consumare. È una “fiamma viva di amore”, che già sta bruciando in noi e noi non ce ne accorgiamo, che già sta riscaldando e illuminando il nostro essere, quello vero, che viene dal seno della Trinità e a esso ritorna. E noi non ci accorgiamo di essere già dentro questo “fuoco trinitario”. Se lo sapessimo, la nostra vita sarebbe diversa. Nella misura in cui lo apprendiamo, giorno dopo giorno, faticosamente, scendendo un gradino alla volta della “segreta scala”, la nostra vita si trasforma e si avvicina all’abbraccio in cui soltanto ci si può riposare e dimenticare di se stessi.
            Giovanni ha fatto questa esperienza e l’ha insegnata ai suoi ascoltatori. Prima fra tutti, una certa Teresa di Gesù, che da lui ha appreso questa stratigrafia dell’anima e l’ha tradotta nell’immagine del castello interiore: scendere nel profondo, per trovare lì l’unione con l’altro e l’unità con se stessi.
            Ce la faremo anche noi, uomini di oggi, ad ascoltare questo messaggio? Avremo il coraggio di metterci in cammino verso le nostre oscure e silenti profondità? Il Signore ce lo conceda, per intercessione del nostro mite e sublime fra Giovanni della Croce.