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sabato 18 novembre 2023

Meditazione sul Vangelo della Domenica


 

L’uomo che partendo per un viaggio chiama i suoi servi per lasciar loro la custodia dei suoi beni, rappresenta Gesù che è andato al Padre e là ci aspetta, quando sarà la nostra ora. I servi rappresentano i suoi discepoli che non sono più servi, ma amici e suoi fratelli, inviati a costruire il Regno di Dio, iniziato da Lui in questo mondo. I talenti sono i doni ricevuti per natura e per grazia che dovrebbero spronarci a cresce e produrre sempre più frutti.

 Come nella parabola delle dieci vergini, nella quale cinque sono sagge e cinque sciocche, qui ci sono due servi che sanno impiegare i talenti e uno che, non essendo capace di nulla, non ottiene nulla. Come nella parabola delle vergini, non si tratta di buoni e cattivi, ma di pronti e di stolti, intelligenti e sciocchi.

 L’uomo ricco che rappresenta Gesù ha otto talenti e accollandosi il rischio di perdere questa grande quantità di denaro (ogni talento d’oro corrisponde a 35/60 chili di questo prezioso metallo), li distribuisce in tre diverse quantità. A uno dà cinque talenti, a un altro due e al terzo uno, a seconda di come li giudica capaci. Anche tra i figli di una stessa famiglia, c'è chi è più intelligente di un altro. Tutti sono figli e hanno gli stessi diritti, però con attitudini diverse, uno per diventare professore, un altro per il commercio, un altro ha tendenze artistiche, ecc. Importante è che ogni terreno sul quale cade il seme del buon seminatore, produca il trenta, il sessanta e, talvolta, il cento per uno.

 La diversa quantità di talenti consegnata a ciascuno dei tre servi (5, 2, e 1) non dipende dalla parzialità del Signore, ma è in rapporto alle capacità di ciascuno e alla possibilità che tutti possano aspirare al massimo. Come si vede, non importa che uno abbia prodotto cinque più di quanto ricevuto e l’altro soltanto due di più. Ambedue si sono comportati come buoni amministratori. Di fatto, ai due, il padrone dice la stessa cosa, ossia: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”!

 Il terzo servitore non viene condannato perché non è stato capace di produrre molto, ma perché non si è dato da fare per niente. Con minor sforzo di quello che gli è costato scavare la terra e nascondere lì il talento ricevuto, avrebbe potuto investirlo, però neppure questo ha fatto. Non solo è stato pigro, ma anche sciocco e pauroso. Sciocco, pauroso e anche malvagio, perché non si è fidato, come gli altri della fiducia accordatagli dal suo padrone.

 Ci è difficile accettare che questo padrone, che rappresenta il Signore, confermi di essere uno che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso, sebbene sia solo per sottolineare la stupidità del servo che, anche temendo questa severità, non ha fatto nulla. Non facendo nulla, non solo non cresce per niente, ma al contrario diminuisce anche il poco che aveva o pensava di avere. Non progredi est regredi, dicevano i latini, non avanzare è regredire. Per questo, il padrone ordina ai suoi servi: “Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha”. In effetti, ciò che ha quell’inerme non è suo e il suo nulla non può crescere.

 La sua colpa è non essersi adoprato per il bene. Non basta non fare il male, bisogna operare il bene, per quanto sia poco, perché l’unica cosa che rimane di noi è quello che abbiamo dato.

Se, tuttavia, Gesù ci dice che quest’uomo che parte per un viaggio e chiama i suoi servi per affidar loro i suoi beni, si arrabbia con il servo sciocco chiamandolo servo inutile e ordinando che lo gettino fuori, nelle tenebre dove c'è pianto e stridore di denti, non è per farci cadere nella paura, ma per svegliarci come suoi discepoli, per i quali non vuole che il loro bene.

 Non dobbiamo pensare subito all’inferno, ma alla necessità di operare, perché non basta dire Signore, Signore. Il vero discepolo nel quale il Signore confida al punto di dargli i suoi beni perché li faccia fruttificare – come capirà in ciò che segue in questo stesso capitolo 25 di Matteo (vv 31-46) che si leggerà la prossima domenica – deve dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, ospitare i forestieri, visitare gli infermi e i carcerati. Sì, perché essere stati chiamati ad essere cristiani è un dono che nessuno può permettersi di vivere senza produrre alcun bene.

p. Bruno Moriconi ocd