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sabato 21 ottobre 2023

Meditazione sul Vangelo della Domenica

 


Solo apparentemente la premessa della domanda dei farisei è gentile e rispettosa: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”. Dicono così, però introducendo la pericolosa domanda sulla legittimità o meno di pagare le imposte all’imperatore romano.

 

Gesù sa che, se dice di sì, possono accusarlo come nemico del suo popolo e se dice di no, può essere denunciato alle autorità degli oppressori. Per questo, comprendendo la loro mala fede, li rimprovera come ipocriti, perché, senza volerlo far sembrare, vogliono metterlo in pericolo. “Ipocriti”, gli dice, “perché mi tentate?”.

 

Inoltre, dietro questa domanda trabocchetto con l’intenzione di mettere in difficoltà Gesù, c'è anche un implicito rimprovero per Lui, che, se fosse veramente il Messia come lo acclama la gente, dovrebbe opporsi agli oppressori. Infatti, secondo le aspettative messianiche più comuni in quell’epoca, è questo ciò che dovrebbe fare.

Secondo la stessa Scrittura, il Messia deve corrispondere al promesso figlio di Davide, inviato da Dio a liberare il suo popolo da ogni oppressione straniera, e a ristabilire la gloria e il potere di Israele davanti a tutte le nazioni. Per mezzo del profeta Natan, Dio aveva infatti assicurato a Davide che il suo ultimo figlio avrebbe reso stabile “il trono del suo regno per sempre” (2Sam 7,13).

 

Se, allora, Gesù pretende di essere il Messia, perché non si impegna a scacciare gli oppressori romani? La domanda che gli fanno (è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?), include questa implicita insinuazione. E, in questo, nonostante la loro malizia, un po’ di ragione ce l’hanno. Gli stessi discepoli di Gesù si attendevano la stessa cosa e, molto spesso, discutevano tra di loro, a chi toccasse il primo posto nel regno che il loro Maestro, secondo loro, stava per instaurare.

 

Per capirlo bene, basta ricordare l’interesse dei figli di Zebedeo (Giacomo e Giovanni), due tra i migliori del gruppo. Come ci racconta l’evangelista Marco (10,35-40), un giorno si avvicinarono a Gesù e gli chiesero di concedere loro di sedersi, nella sua gloria, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra. Gesù aveva risposto che non sapevano quello che stavano chiedendo, dato che si trattava di bere il calice, ossia, la sorte che stava per affrontare Lui.

 

Continuando senza capire, i due avevano risposto che sì, che lo potevano, che lo avrebbero bevuto. In verità, ciò che intendeva Gesù con il “calice”, lo avrebbero capito, ma solo molto più tardi e per mezzo dello Spirito, una volta risuscitato il loro Maestro. Per questo Gesù aveva detto loro che sì, lo avrebbero bevuto, ma che si trattasse di dare la vita, in quel momento, non ne avevano proprio idea.

 

L’incarnazione del Figlio di Dio nel mondo aveva un altro piano, rispetto a ciò che ci si poteva aspettare da parte di Israele, anche in base all’interpretazione dell’AT. Nessuno dei profeti aveva potuto parlare di ciò che doveva accadere e che Paolo, nella sua lettera ai Galati (4,4-5), avrebbe riassunto molto bene in sole poche parole. Che, compiuto il tempo, Dio aveva inviato suo Figlio, a nascere da donna e nella nostra condizione, per riscattare tutti dal peccato e perché tutti, giudei e pagani, ricevessero la condizione di figli, dello stesso Padre celeste.

 

Per il momento e come è giusto che sia, alla domanda capziosa dei farisei, Gesù, servendosi dell’immagine e dell’iscrizione sulla moneta romana che aveva chiesto gli mostrassero, rispose che bisognava dare a Cesare ciò che era di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.

 

Non era venuto al mondo per essere un rivoluzionario politico, ma per portare luce a chiunque. Al suo popolo, ma anche ai romani, tutti figli dello stesso Padre che lo aveva inviato all’umanità intera. Quel giorno non poteva spiegare tutto questo, perché, come abbiamo detto, non lo avrebbero capito, ma era per questo che non si era messo neanche contro i romani.

 

Era venuto a insegnare che, imposte sì, imposte no, ciò che importa è dare a Dio il rendimento di grazie, perché tutti sono Suoi figli ed Egli attende ciascuno con amore. Infatti, anche nella risposta di Gesù c'è un messaggio implicito e, se vogliamo, una sfida. Nella moneta che siamo noi stessi, è incisa l’immagine di Dio secondo la quale siamo stati creati.

 

Ai “Cesari”, pertanto, dobbiamo ciò che chiedono o impongono i loro statuti (la moneta), ma a Dio si deve tutta la nostra riconoscenza.

p. Bruno Moriconi ocd