Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3, 16-18)
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio».
L’Evangelo di oggi è un breve tratto del lungo testo di
Giovanni dell’incontro tra Gesù e Nicodemo. Secondo alcuni esegeti, queste che
oggi ascoltiamo non andrebbero registrate come un discorso diretto di Gesù, ma
come parole di commento dell’evangelista alle parole di Gesù sull’innalzamento
del Figlio dell’uomo. Ai versetti precedenti Gesù ha detto a Nicodemo che “come
Mosè innalzò il serpente nel deserto così deve essere innalzato il Figlio
dell’uomo”: è nel volgere lo sguardo all’innalzato che si ha la
vita, così come gli israeliti mormoratori, avvelenati dal morso dei serpenti,
avevano la salvezza se volgevano lo sguardo al serpente di rame innalzato da
Mosè (cfr. Num 21, 4-9) … E’ strano, il Figlio dell’uomo paragonato al
serpente!…Solo per l’innalzamento?
Mi pare di no…il serpente innalzato dà la salvezza ma ricordando
il peccato, quello dell’in-principio, quello della parola mormoratrice
che tutto avvelena…così il Crocefisso innalzato dà la salvezza ma
ricordando l’iniquità ed il peccato, che si visibilizzano nel corpo straziato e
torturato del Figlio dell’uomo…
Le ragioni di questo riposano tutte nell’amore del Padre;
ecco che allora l’evangelo ci rivela chi è Dio: è il Padre che ama il mondo tanto da dare il suo Figlio; è il Figlio che non teme di farsi
innalzare immergendosi tutto nel peccato dell’uomo; è lo Spirito che ci fa rinascere
dall’alto (cfr. Gv 3, 5). Il mistero trinitario ci conduce ad un Dio che
non è un sistema morale ma un “sistema” di dono, non
bisogna fare altro che accettare il dono e farsi rigenerare; la vita del
discepolo di Cristo, la vita pasquale del discepolo di Cristo, non è una nuova
morale ma una rinascita con cui si può venire fuori dal grembo
mortifero del peccato per venire ad abitare in un altro grembo, quello dell’amore
trinitario che plasma l’uomo nuovo rendendolo capace di una vita nuova. Una
vita nuova che si accoglie, e che non è sforzo morale; una vita
nuova che è lotta, ma per contrastare l’uomo vecchio che vorrebbe tornare
in quell’altro grembo mondano: più rassicurante, più “solito”, più “come”; e
che non si compromette con un’alterità che è incomprensibile ed
inaccettabile per chi fa del “salvare se stesso” la sua unica religione. Il
mondo fa questo! Dio no!
Il Dio Trino, infatti, ha pagato il “caro prezzo”
della lacerazione e dell’accoglienza in sè del dolore e perfino della morte. E’
questo Dio che ci ha aperto il mondo nuovo, è questo Dio che ha riversato su di
noi lo Spirito, che sempre ci accompagna nella fatica storica della fedeltà per
custodire – nella lotta – l’uomo rinato dall’alto.
La liturgia di questa domenica, in fondo, non vuole
spiegare; vuole invece mettere sulle nostre labbra e nel nostro cuore lo
stupore e la lode … le liturgie di questo tempo ci hanno fatto rivivere e
riassumere tutto il mistero d’amore che ci ha salvato!
Dopo le grandi celebrazioni pasquali, la Chiesa vuole una
sosta contemplativa sul mistero
fontale di tanto amore! L’amore pasquale che Cristo Gesù ci ha donato con
la sua Croce e la sua Risurrezione, quell’amore che è stato finalmente effuso
sulla Chiesa e sul mondo e che ora è dono fatto all’umanità intera, non
è un meraviglioso sentimento, non è un moto bello di un’anima bella e neanche
il moto intimo del cuore sublime di Dio. No! Quell’amore è la vita stessa di
Dio!
La Trinità di
Dio (o come scrive
Basilio, la Tri-unità di Dio!) non è un astruso mistero su cui non
bisogna indagare perché resta comunque incomprensibile! Probabilmente proprio
l’incomprensione del mistero trinitario ha fatto sì che il cristianesimo si
riducesse così spesso a “religione” e a “religione” tra le altre
“religioni”. L’incomprensione del mistero trinitario produce conseguenze
gravissime nella fede e nella prassi dei cristiani. Non è solo questione di
teologia, è questione di “conoscenza” autentica di questo nostro Dio che
non è un Dio generico, un Ente Supremo qualsiasi, ma è Padre,
Figlio e Spirito Santo.
Il mistero della Trinità ci dice che Dio è comunione, anzi è la
comunione fontale; e ce lo dice non per darci una mera nozione, ma
perché noi entriamo esistenzialmente, vitalmente in questa comunione, in
questo abbraccio di Dio. Un Dio solitario non può essere amore,
tutt’al più ama … il Dio che Gesù ci ha raccontato è
amore perché nel suo intimo è comunione, è relazione di
amorosa tra persone, è amore che ama, che si lascia amare, che si
dona …
Questo mistero che è compimento di rivelazione su Dio dà
ragione profonda a quanto già la Prima Alleanza aveva “conosciuto”.
Infatti il nome che il Signore rivela al Sinai a Mosè che torna con due
nuove tavole di pietra lì sul monte dopo la scoperta del peccato del popolo che
s’era prostrato al Vitello d’oro, è “Il Signore, il Signore, Dio
misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà”! Ad
un Dio così Mosè osa chiedere la “compagnia” costante nella fatica del
cammino verso la Terra Promessa: Che il Signore cammini in mezzo a noi.
Questo Dio compreso come infinita misericordia e fedeltà suscita
nel cuore di Mosè la “parola” più bella che un uomo possa pronunciare davanti
al volto di Dio: la “parola” della solidarietà col peccato degli altri
uomini.
Credo che questa “parola” di Mosè sia una “parola” cardine
della Scrittura, “parola” che ci mette al riparo da ogni èlite di
pretesa giustizia: Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra
colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità! Mosè prende
anche su di sé il peccato e la colpa di tutti, anche se non si è prostrato
al Vitello d’oro (era sul Sinai con il Signore!) si sente non estraneo al
peccato dei fratelli, solidale con alla loro miseria ed idolatria.
Ecco cosa fa la “conoscenza” del cuore di Dio!
Accogliere la Pasqua di Cristo è allora accogliere questo dinamismo d’amore che
è la vita trinitaria nella propria vita. Paolo, nel testo della Seconda
lettera ai cristiani di Corinto che oggi si legge, ci ha detto con
chiarezza cosa sia questa accoglienza: si accoglie questo dinamismo di Dio
riconoscendo la grazia del Signore Gesù Cristo, cioè l’assoluta gratuità
della Croce e della Risurrezione; riconoscendo l’amore di Dio,
riconoscendo cioè di essere amati non di un amore qualsiasi fatto di sentimenti
passeggeri ma di un amore eterno che a tutto può dare senso; riconoscendo la
comunione dello Spirito Santo, cioè l’opera finale della salvezza che è la “koinonia”,
è l’amore che, non solo ama l’altro ma lo cerca e si compromette
per lui, si sporca le mani per il fratello e con il fratello.
Celebrare l’ Amante, l’ Amato
e l’Amore, direbbe S. Agostino, è per il discepolo di Cristo farsi amante,
amato, amore. Personalmente ed in una comunità credente. O la Chiesa è icona
di questo amore trinitario nell’amore che ama, che si lascia amare
e che si dona o non è più Chiesa di Cristo e rischia di essere
organizzazione di una “religione” che più nulla ha a che vedere con
l’Evangelo di Gesù suo Signore!
p. Giorgio Rossi, ocd