MEDITIAMO CON P. GIORGIO ROSSI OCD
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 10, 25-37).
In
quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e
chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli
disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai
il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la
tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli
disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù
riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei
briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono,
lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima
strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo,
vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli
accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite,
versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un
albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li
diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te
lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di
colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto
compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
La domanda che viene rivolta a Gesù circa la vita eterna è la
domanda che ogni uomo si pone quando è posto dinanzi al senso del proprio
esistere nel mondo: cosa bisogna fare per raggiungere la pienezza della vita,
appunto la vita eterna? Gesù rimanda alla conoscenza della volontà di Dio che
si manifesta nel suo comandamento dell’amore. Perciò risulta essere la carità
il senso e la méta di ogni giorno: Fa’ questo e vivrai! Ma dell’amare di cui
parla Gesù spesso non si conosce la direzione: “E chi è il mio prossimo?”. Qui
allora Gesù narra se stesso come parabola perché se il comandamento di Dio può
apparire come una legge esterna, la storia di Gesù lo precisa in una figura
personale. Il finale sarà sorprendente.
Si racconta la vicenda di ogni uomo e donna che camminano
in questo mondo. Essi sono portatori di un bisogno. L’immagine dell’uomo che
scende da Gerusalemme a Gerico, che giace pieno di ferite, a cui viene portato
via tutto, è l’emblema di chi è solo nel proprio dolore, col peso insostenibile
del male. Se ne trovano in tutte le condizioni di persone così, e in ogni
situazione: l’orizzonte che va da Gerusalemme a Gerico disegna proprio questo.
Il sacerdote e il levita, come spesso anche noi, “passano
oltre”. Evitando così la sfida della carità che chiede di istruirci sul mistero
di Dio e sul nostro rapporto con gli altri.
Invece un Samaritano … Ecco: l’agire cristiano si fonda
nella carità di Dio, che vuole che ogni uomo viva una vita piena. Per questo
occorre che l’uomo sia strappato al suo bisogno e sia posto nella condizione di
scegliere liberamente per il bene. La carità cristiana si inoltra a fare del
bisognoso un uomo che risponde consapevolmente e liberamente a quel mistero di
cui non siamo padroni ma solo testimoni.
Gesù, che è il samaritano della parabola, pensa anche al
dopo. C’è una caparra e c’è una promessa. Si apre lo spazio e il tempo della
nostra libertà in attesa del suo ritorno. E’ questo il tempo della nostra
carità, della possibilità che ci è data di sovrapporci alla Sua figura, quella del
buon samaritano.
Così viene capovolta la domanda iniziale: la questione vera
non è chi è il prossimo, ma chi si è fatto prossimo. E tutte le forme, piccole
o grandi, in cui si esprime la dedizione, sia il gesto volontario, sia lo
svolgere il proprio lavoro quotidiano, sono frammenti preziosi che alludono
all’insuperabile ricchezza della carità di Cristo.
Trovare il prossimo significa farsi prossimo, leggere e
scegliere i tempi, i momenti, le persone della carità. Con quell’ “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più,
te lo pagherò al mio ritorno” Gesù fa notare che la carità non è solo un
fare ma è un capire, è scegliere: ci vuole una intelligenza della carità. La
carità chiede testa e cuore, chiede di comprendere le cause senza fermarsi solo
a tamponare gli effetti. Ci vuole quindi una carità che comprende, che non dà
tutto oggi, perché anche il domani ha bisogno di te.
Al finale Gesù conferma la risposta dello scriba
invitandolo a fare altrettanto. La carità è missione, è invio, è diretta presa
in carico. Chiede tempo, vuole disponibilità totale, spinge a lavorare ad un
progetto comune, ad entrare in una storia, in un stabilità di vita.
La carità invoca continuità: diversamente è difficile allontanare il sospetto
che i nostri impegni sono esclusivamente legati alla gratificazione. La
gratificazione in sé non è una brutta cosa ma esige di crescere, di fondersi
con il progetto di altri, di costruire una storia comune.
I tempi della carità conoscono anche la noia, il fallimento, il conflitto, la
perdita di tempo e persino l’insuccesso. I tempi della carità hanno la stessa
qualità dei tempi della vita, anzi dei tempi di una vocazione e di una
vocazione comune. Se uno non ha mai almeno sognato il proprio impegno dentro
una vocazione, difficilmente può essere garantito circa l’autenticità della sua
carità.
La carità quindi ha bisogno di figure, di modelli, di rapporti stabili, di
comunità fraterne. La carità dei primi cristiani è il paradigma della carità
che può e deve cambiare il mondo, stimolandoci di continuo a non cullarci nei
risultati raggiunti ma ad ascoltare la voce dei tempi procurando «sempre d’incominciare
e d’andare innanzi di bene in meglio»
(F 29, 32).
P. GIORGIO ROSSI OCD